ADDIO A TURUZZU LIPPO L’ULTIMO GUMMULARU (VASAIO)

            

B.sur mer- Qualche anno fa, dopo aver lasciato Guardia Piemontese, con il suo gran belvedere sul Mare di Ulisse, percorrevo la strada che mi avrebbe portato a San Marco Argentano. Per la prima volta nell’arco di quel viaggio in Calabria lasciai il posto ai pensieri. “The Doors” con le canzoni di Jim Morrison facevano da colonna sonora.

 Una frizzante aria invernale entrava dai finestrini semi-aperti. Fermai la macchina per preparare il piccolo registratore da usare durante la nostra chiacchierata con il personaggio che stiamo per incontrare a San Marco.

Sempre in compagnia di Jim Morrison , arrivai a San Marco Argentano. Fermai l’auto davanti ad un’imponente torre normanna. Sono quasi le 15. La luce del sole, ancora ben presente, donava alla torre una impressionante maestosità.

Nel 1048 Roberto il Guiscardo assedia e conquista San Marco, trasformandola in città fortificata. I normanni conferirono nuovo e decisivo impulso alla vita politico-economica della città ed al suo assetto architettonico. Essi, valorizzando il primitivo insediamento di età longobarda e la naturale posizione strategica del luogo, costruirono le mura della città, la poderosa torre e la casa-fortezza di Roberto il Guiscardo (oggi vescovato).

Dal 1862 la cittadina viene nominata San Marco Argentano. Ed è proprio qui, a 20 metri dalla torre normanna, che viveva Turuzzo Lippo “U Gummularu”, l’ultimo dei vasai. Insieme a Turuzzo percorremmo un centinaio di metri per ritrovarci in una antica fornace fatta di fieno, terra e calce. Fornace dove venivano portati i prodotti in argilla cruda per essere prima immersi nel colore e poi infornati. Bastarono poche parole da parte di Turuzzu Lippo, per essere catapultati indietro nel tempo di almeno 500 anni:

“Bisogna sapere che là dove sono i terreni bianchi, o vero che tenghino di genga, in tutti quei luoghi, dico, che là si trova terra da far vasi. Ho veduto còrre io la terra in questa guisa: hanno fatto, dico, cavar nel terreno fosse di cinque piedi per ogni verso, alte tre piedi, lontan una da l’altra circa un piede; et in quel piede di terreno sodo, che rimaneva tra l’una e l’altra, fatto un canale, acciò l’acqua potesse discendere per le dette fosse e così, piovendo e rasciugandosi spesso, si è cavato più di due some di terra per fossa. E questa, per tutta l’Italia e fuori, intendo che si chiama terra creta.”

Così parlava un antico vasaio, tale Cipriano Piccolpasso, architetto, vasaio, ceramista, pittore della seconda metà del 1500.

Ascoltando Turuzzo, degno collega del Piccolpasso, notai, nelle sue parole, un sottile velo di melanconia di una persona che sta per perdere una parte di sé. Ma fu solo un attimo. Il sorriso tornò nei suoi occhi e sul viso mentre versava in tazze di ceramica, l’acqua fresca di sorgente conservata nella “gummula” creata dalle sue mani. Con quelle stesse mani mi salutò all’imbrunire di un pomeriggio particolare passato insieme.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

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