LA PROVVISORIETA’ DELL’UOMO VUOTO

Beaumont sur Mer –“Lo sfruttamento non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. – Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri con se stessi” in Al di là del bene e del male. F. Nietzsche

Fragili, residuali, marginali. Sono tanti i termini per definire chi oggi vive la precarietà. Viverla, sperimentarla, e non, semplicemente, trovarsi in una condizione di precarietà. Appare, d’altronde, sempre più chiaro che la precarietà non è solo una condizione. In quanto tale, potrebbe cambiare, venire meno o crescere, a seconda dei fattori che l’hanno determinata.

Per il filosofo tedesco Helmuth Plessner  la precarietà sarebbe la caratteristica che meglio definisce il ruolo e l′azione dell’uomo che entra in un rapporto stretto con l’ambiente e con gli altri uomini. Sarebbe, quindi, una predisposizione inestinguibile della natura umana.

Sempre secondo Plessner, la produzione di un’immagine in cui l’uomo figura come un essere capace tanto di trascendersi ininterrottamente quanto di celarsi agli altri.  Probabilmente anche a sé stesso. Per questa ragione, l’uomo sarebbe per costituzione costretto a vivere in un regime di precarietà, tanto che quella che Plessner chiama Verunsicherung (precarizzazione) sarebbe la caratteristica di fondo del suo modo di essere al mondo.

La Chiesa e tutte le religioni monoteiste hanno da sempre gratificato l’essere umano credente, con la possibilità della vita eterna nell’aldilà, considerato il limite dell’ esistenza umana, della sua finitezza e della sua precarietà su questa terra. Tema da sempre filosofico, con il quale tutti i grandi pensatori si sono misurati.

Marx descriveva il fenomeno della disoccupazione in quanto prodotto dell’economia capitalista, indirizzata a dimostrare che la mancanza di lavoro non è un fenomeno naturale, ma un prodotto necessario dell’accumulazione capitalistica. L’esubero di mano d’opera fu uno dei primi tentativi di fornire una spiegazione storica e teorica della tendenza del sistema capitalistico a generare, in virtù delle sue proprie dinamiche, una quota di popolazione eccedente rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale.

Marx non usa quasi mai il moderno termine “disoccupazione” (Arbeitslosigkeit, in tedesco), ma le espressioni “esercito industriale di riserva” e “sovrappopolazione relativa”. Esattamente come la panchina dei giocatori di calcio o qualsiasi altro sport. Se la nascita del capitalismo va dunque di pari passo con l’emergere del fenomeno della disoccupazione, lo sviluppo di tale modo di produzione, fondato sull’accrescimento continuo del capitale e sulla diffusione delle macchine, instaura dinamiche tali da rendere strutturale e tendenzialmente crescente il pericolo della disoccupazione di massa.

Per tornare alla precarietà dell’uomo in questo inizio di millennio con il suo Covid, le guerre sparse in tutto il mondo e l’atroce realtà dei palestinesi nella Striscia di Gaza, mi sono rivolto agli scritti di due poeti della mia gioventù; Federico Garcia Lorca: Amore, morte e sensualità vengono fusi in “Pequeño vals vienes”, che può essere ritenuto il compimento che per eccellenza affronta la complessa molteplicità dello slancio vitale affettivo. Poi venne Giuseppe Ungaretti, che in sogno mi sussurrava:

“Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea di uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte, non dal pericolo, che era rappresentato da quella tragedia che portava l’uomo a incontrarsi nel massacro.”

Negli scritti di Ungaretti, non vi è traccia di odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. La guerra è un posto dove i giovani che non si conoscono e non si odiano, si uccidono, in base alle decisioni prese da vecchi conservati in naftalina che si conoscono e si odiano, ma non si uccidono fra di loro.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

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