AMORE DISPERATO PER UNA TERRA

Mia Nonna materna mi insegnava, attraverso esempi pratici, che essere coerenti è segno di maturità, segno di forza. Una persona coerente è, nel senso comune, una persona che cammina a braccetto con la fiducia. Un uomo è coerente quando le sue scelte e le sue priorità su famiglia, figli e società sono sempre uguali. Lo stesso uomo reputa coerente la sua compagna, i suoi collaboratori fino a quando mantengono le promesse fatte.

Un uomo coerente è colui che prende decisioni sulla base di ciò che ha sempre voluto, di ciò che è sempre stato fondamentale per lui. Lo stesso uomo reclama coerenza dalle persone che gli stanno accanto, dai propri figli quando non restano fedeli a quello che hanno sempre fatto.

In una terra, la Calabria, che cerca di fare qualcosa, per rendersi più  vivibile, dovrà convincere i propri figli  a combattere la battaglia più dura che un uomo possa combattere. E non smettere mai di lottare. Per dirla con le parole del grande pensatore greco, Socrate: “Io credo, o carissimo, che sarebbe meglio che la mia lira fosse scordata e stonata, e che lo fosse il coro che io dirigessi, e che la maggior parte della gente non fosse d’accordo con me e mi contraddicesse, piuttosto che sia io, anche se sono uno solo, ad essere in disaccordo con me stesso e a contraddirmi.”

La curiosità, contrariamente a ciò che pensava mia madre, mi porta a chiedere dove si troveranno gli occhi de miei conterranei quando i miei si chiuderanno? Si rifaranno a citazioni di libri per costruire una situazione perfettamente blindata, per il gusto di mandarla all’aria con qualche evento o arrivo inatteso? Da una parte avranno la spinta, la voglia d’essere migliore. Una passione, questa, non ben radicata in un luogo così aberrante che neanche Isaac Asimov avrebbe osato immaginare.

 Dall’altra la pesante tara di ciò che si è e l’humus culturale di cui si è l’espressione; cioè la Terra del dimenticato passato che torna e opprime col suo maleodorante rigurgito, una terra quasi isolata, fuori dal mondo.

Una terra che si ripropone di continuo, ricoperta da erbacce, da ragnatele molto spesse, da scarafaggi e da  rapporti intricati che cercano una propria e dignitosa forma; dove qualcosa di rotto è per sempre. In quel preciso momento la melanconia avrà il sopravvento e la triste figura del vecchio viaggiatore smarrito riapparirà.

Non è vero che i luoghi non muoiono mai, perché i luoghi crepano, eccome! Ciò che continua a vivere sono i ricordi di ciò che è stato e non sarà più. Sono rimasti i vecchi vinti dalla consuetudine, che non saprebbero vivere altrove, né intendono morire altrove, vogliono addosso la terra calpestata in vita. 

 C’è però un antropologo, il Professore Vito Teti, della UNICAL che non è d’accordo e si diletta a scrivere: “Contro ogni apparenza i luoghi abbandonati non muoiono mai”.
A contraddirlo c’è il tanfo di morte tra i paesini sperduti delle Serre calabre e tra le conche verdi del Pollino, dove lo sguardo della modernità, che ha distrutto la costa e il Mare di Ulisse, neppure arriva. Intere vite obbligate ad una inerzia catatonica. È tutto silenzio. Le campane non chiamano più alla messa né alla benedizione della sera. Persino l’orologio della torre ha deciso di tacere i rintocchi tintinnanti dei quarti e i colpi possenti e cupi delle ore. 

Qualche sparuto ed irrequieto spirito che, simile ad un animale da corda si agita solitario; l’inesistenza di uno scambio di idee nel sociale, la rassegnazione che si legge sui volti della gioventù, che finita l’estate, si ritrova sul secondo binario ferroviario, direzione “Nord”, “Est” o altre destinazioni “perché non è più come un tempo, quando la manodopera calabra faceva gola allo sviluppo del Nord del mondo e adesso invece non c’è un buco per sbarcare il lunario”.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

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