LA SECONDA CACCIATA

L’astronave era sulla pista con i propulsori pluripropellenti al minimo da almeno due ore.

Il mio equipaggio, composto da 197 persone, stava affrontando le prove di sanità mentale e di lealtà alla missione. Quando lo strumento di controllo emanava il sibilo di inidoneità, l’individuo veniva immediatamente scartato – nonostante le proteste – e avviato verso la rieducazione e il riciclaggio, ed immediatamente sostituito da altro elemento idoneo.

Temevo per Reina, la mia compagna, perché ultimamente si abbandonava ai sogni, mostrava stanchezza, mi raccontava della sua felice infanzia, delle sue capriole sui prati artificiali di Marte, delle zingarate con i suoi amici intorno al pianeta dei morti, la Terra. La somma di queste debolezze potevano farla escludere dalla missione.

Ma ce la fece e corse verso di me  – tutta tremante – facendomi intuire che questo sarebbe stato il suo ultimo viaggio.

Salimmo sull’astronave, assumemmo la posizione di partenza e ordinai al pilota-robot  l’inizio delle operazioni di lancio. E come ogni volta, la mia mente fu affollata dai fantasmi del passato: la mia infanzia, il mio squallido robot-precettore che avevo distrutto cento volte, le mie irrequietezze che mi avevano sempre impedito di conservare un posto di lavoro ordinario, il casuale e fortunato incontro con Reina,  conosciuta nei gassosi anelli di Saturno.

Poi pensai alla missione. Noi, pionieri dell’Universo, avevamo il compito di formare degli avamposti su pianeti sconosciuti e montare il meccanismo materia-transfert che  trasporta in tempo reale ogni cosa dal posto di partenza al luogo di installazione, al fine di permettere un’agevole colonizzazione dei pianeti da parte dell’ umanità.

 Eravamo in viaggio verso Gam  della costellazione del Giglio, di recente scoperta ma di origine remotissima, mai esplorata neanche dalle potentissime onde K, più volte indirizzate su di essa. Queste tornavano indietro senza recare alcuna informazione, come se incappassero in una potentissima lastra rifrangente che le respingeva. Notevolissimo quindi era l’interesse che l’umanità connetteva alla nostra missione e giustificata appariva quindi l’estrema cura della sua organizzazione e della scelta dei migliori elementi per portarla a termine.

Fui bruscamente distolto da queste riflessioni perché il pilota-robot mi chiese le coordinate iperboliche di viaggio. Con gli strumenti di bordo le calcolai e gliele diedi. Quindi ordinai all’equipaggio di ritirarsi nelle celle ibernifere e di avviarne il meccanismo. Dopo un ultimo e doveroso controllo, lo facemmo anche io e Reina.

Iniziò così il nostro iperstatico viaggio al di fuori del tempo e dello spazio.

Ma dopo un tempo imprecisato, gli assordanti allarmi di sicurezza mi svegliarono bruscamente. Il processo di ibernazione si era automaticamente disinserito, per cui corsi in cabina di comando per vedere cosa fosse successo. A prima vista sembrava tutto in ordine: nessun meteorite od altro oggetto aveva colpito l’astronave. Ma da un esame più accurato notai che tutti i segnalatori di bordo erano fermi sullo zero. Il pilota-robot era del tutto fuori uso come se fosse stato colpito da un fulmine. Misi in  atto il programma di emergenza di massima allerta e trasformai tutte le funzioni dell’astronave da automatiche a manuali. Poi attivai il disibernatore dell’equipaggio e convocai tutti sulla piattaforma.

“Siamo dispersi nello spazio” dissi. “Tutti gli strumenti di bordo sono fuori uso. Non abbiamo la possibilità di andare né avanti, né indietro. Siamo in balìa della sorte senza alcuna speranza di salvezza. Chi vuole può far ricorso alla pillola dell’oblio. Chi non si arrende, vigili su ogni meccanismo e segnali ogni minima variazione che potrebbe costituire la scintilla della salvezza!”

La prima a riaversi fu proprio  lei, Reina, ragazza cuor di leone che non finiva mai di stupirmi. Arringò gli uomini: “Ma quale oblio!” mi contraddì, e chiamando gli uomini ognuno con il proprio nome li dislocò nei punti strategici dell’astronave che solo lei conosceva a menadito, affinchè riferissero di qualsiasi variazione.

Soltanto una trentina di membri si avvalsero della pastiglia.  I restanti obbedirono agli ordini di Reina e occuparono i posti strategici alla ricerca del guasto. Ma nulla fu trovato. L’astronave era morta! Eravamo in caduta libera su Gam e di noi sarebbe rimasto soltanto qualche atomo di carbonio e azoto che si sarebbe disperso nell’atmosfera del pianeta.

Un nuovo scoramento percorse l’equipaggio e molti altri ricorsero alla pastiglia dell’ oblio, mentre l’astronave si avvicinava sempre di più all’impatto. Dai visori ottici erano ben visibili i quattro soli disposti a croce che davano luce al pianeta, dove la notte non esisteva.

La nostra folle corsa verso l’annientamento procedeva inesorabilmente.

Più ci avvicinavamo, più gli uomini diminuivano. Eravamo rimasti in 37 ad aspettare la fine ingloriosa della missione. Cercammo di distrarci – con la rassicurante pastiglia dell’oblio in mano – raccontando ad alta voce i momenti più belli delle nostre vite che, peraltro, nessuno ascoltava. Ci tornavano in mente eventi e fatti piacevoli  avvenuti qualche centinaio di anni marziani prima.

Ad un’ora dall’impatto un leggero scricchiolio destò la mia attenzione e mi diede un barlume di speranza. Corsi ai comandi ma nulla era cambiato. Eppure riconobbi quel rumore: era quello che sentivo quando l’astronave cambiava rotta e si accingeva all’approdo. Per assicurarmi che non stavo sognando, mi avvicinai ai visori e vidi che stavamo assumendo la direzione parabolica di atterraggio su Gam!

Comunicai la notizia a quel che restava dell’equipaggio  ordinando di prendere posto nei loro baccelli di atterraggio ed un urlo di liberazione percorse tutta l’astronave. Ma mille interrogativi affollarono la mia mente: quale forza oscura l’aveva catturata? Chi la guidava? Era in grado di effettuare un atterraggio morbido? Ci hanno fatto prigionieri? Ci avrebbero consentito di fare il nostro lavoro? E così via.

Intanto la manovra procedeva regolarmente. Lo scricchiolio – simbolo di vita – proseguiva e l’astronave si accingeva, con una tecnica a me sconosciuta, ad assumere un’orbita geostazionaria di avvicinamento a Gam mediante una serie di approssimazioni successive. L’impatto con i primi strati dell’atmosfera fu dolcissimo e riconobbi con un certo disappunto che chi la guidava era molto più bravo di me.

Ordinai agli uomini rimasti di procedere alle rilevazioni di rito sull’atmosfera e di approntare la navetta-sonda per l’ispezione del pianeta. La miscela di aria risultò compatibile con i nostri polmoni per cui con l’equipaggio al completo, armi incluse, salimmo tutti sulla navetta e lasciammo l’astronave.

Il pianeta era abitato. A bassa quota potemmo ammirare splendide costruzioni di marmo, fiumi, laghi, mari. Una vegetazione rigogliosa ricopriva tutto il pianeta e, a causa dei quattro soli, le calotte polari non esistevano. Era il pianeta più bello che nei miei innumerevoli viaggi interplanetari avessi mai visto!

Atterrammo e appena usciti dalla navetta una moltitudine di persone ci venne incontro. Ci diedero il benvenuto con ampi inchini e ci offrirono doni a non finire. Non chiesero la nostra provenienza ma dissero che ci stavano aspettando da diverso tempo e non capivano il motivo del ritardo.

Rimasi affascinato da questa gente – tutti giovanissimi – anche se una punta di diffidenza in me permaneva. Reina, invece, più sensitiva, fraternizzò immediatamente. Gettò subito l’arma, accettò i loro doni, vestì la loro tunica bianca, rise con loro, li abbracciò e li baciò. Nel frattempo io guardavo l’ambiente ricco di vegetazione di ogni tipo, con alberi carichi dei frutti più vari; gli animali convivevano con le persone senza alcuna diffidenza e senza alcuna differenza tra di loro. Dagli occhi degli abitanti traspariva una grande felicità che gli umani non avevano mai provato. Tutti erano felici!

“Ma che mondo è questo?” pensavo. Da noi alla felicità di uno corrisponde l’infelicità di un altro. Si è sempre felici a spese di qualcuno. Qui no. Sono tutti felici!

Ogni cosa era stupefacente. Nessuna punta di amarezza o di invidia guastava la gioia che regnava sovrana in quel luogo.  Eravamo veramente tutti stupefatti.

“Venite” ci dissero. “Il Capo vi aspetta”. Ci guidarono attraverso sentieri fantastici in un paesaggio da sogno. Torrenti e sorgenti di acqua purissima che cantavano inni di gioia; distese di prati e di fiori che invitavano al riposo, profumi indescrivibili.

Arrivammo infine ai piedi di una scalinata della quale non si vedeva la fine. Cominciammo a salire ma senza nessuna fatica. Fu allora che compresi di essere giunto nel mondo dove non esiste dolore, né lagrime, né fatica: ovvero il Regno dell’Amore cercato dall’Uomo da milioni di anni!

Noi, finalmente, l’avevamo trovato! La meta del mio errabondare era qui!

Confidai queste mie riflessioni a Reina la quale le condivise in toto. Non l’avevo mai vista così felice ed estasiata. Aveva dimenticato i tragici momenti che avevamo trascorso, la misteriosa forza che ci aveva catturati, i compagni che avevamo perduto nella missione, gli amici lasciati su Marte, e forse anche me. La vedevo totalmente catturata, anima e corpo, da questa fantastica avventura.

Giungemmo alfine in un vastissimo prato senza alcuna costruzione, con l’unico vecchio di Gam intento ad annaffiare gigli, il quale fece cenno di avvicinarci.

“E’ lui il Capo?” domandai alla persona che mi era vicina. “Quel vecchio signore?” “Certo” rispose. “Non è evidente? Lui è l’unico che qui ha il diritto di invecchiare”. Per me fu evidente solo quando parlò. “Umani del Sole” disse senza sorridere. “Non posso accogliervi nel mio Regno. Nei vostri cuori alligna ancora l’odio, la superbia, l’invidia, l’egoismo, la guerra, la vendetta, e altri simili terribili peccati. Ciò a fronte di un granello di amore che riservate ad un numero di persone vicino allo zero. Costruite ancora prigioni e armi, simboli di dolore inflitto con piacere. Fate ancora distinzione tra uomini e donne, fonte di incalcolabili ed insanabili odi e gelosie.  Questo posto non è ancora per voi. Ritornate con i vostri primitivi strumenti da dove siete venuti e proseguite per altri mille anni la catarsi”.

Stavo per replicare ma mi voltò le spalle e riprese il suo lavoro. Volevo solo dirgli che è vero che conosciamo l’odio, ma anche l’amore; che a volte siamo superbi ma anche umili; che non solo l’egoismo ma anche l’altruismo caratterizza la nostra vita. Ma evidentemente – secondo il Capo – i gravissimi peccati elencati erano di ostacolo al nostro ingresso nel Regno dell’Amore.

Ci accompagnarono in lagrime alla navetta, ci fecero altri doni, ci baciarono e ci supplicarono di tornare presto.

Lasciammo quel mondo di sogno  e ragionammo sul nostro triste destino – novelli Adamo ed Eva – cacciati per la seconda volta, e per nostra colpa, dall’Eden!

Quanti secoli di fatica e dolori dovremo ancora  sopportare  per raggiungere la catarsi necessaria per essere – finalmente – meritevoli del Regno dell’Amore?

Vit

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