PAURA E DESIDERIO

Beaumont sur Mer

“Conosco delle barche che si dimenticano di partire…hanno paura del mare a furia di invecchiare”, (Jacques Brel).
Da adolescente, quando la paura del cambiamento mi bloccava in meccanismi che mi impedivano di svolgere ciò di cui veramente sentivo il bisogno, la necessità necessaria per intraprendere un percorso totalmente nuovo. Per trovare la soluzione mi affidai al mare. Quando pensavo al cambiamento c’era desiderio e c’era paura.
La risposta era dall’altra parte delle colonne di Ercole. Oltre lo spazio in cui ero in quel momento; la risposta era lì, in quello spazio aperto che continuavo ad osservare insieme a d una ragazza australiana che si trovava sulla mia stessa nave. Nel momento che salivo su quella nave nel porto di Napoli, avevo smesso di aspettare prima di tuffarmi in qualcosa di nuovo, di diverso…aspettavo perché non sapevo bene cos’era, dove andare, perché “ero abituato a fare…”, abituato a essere ciò che desideravano i miei genitori,… perché “dovevo essere coerente con ciò che ero sempre stato”…Avevo paura. Avevo paura di non farcela, paura di ciò che non conoscevo, e di non “riconoscermi”.
In Calabria ad Amantea viveva una ragazza. Mentre tutto il popolo prendeva parte ai riti di Bacco, la giovane donna osò sfidare il dio rimanendo al proprio telaio, indifferente ai festeggiamenti. Bacco allora, si trasformò in fanciulla e andò da lei a consigliarle di partecipare alla festa; la giovane non solo si rifiutò ma parlò anche male del dio, il quale per punirla prima si trasformò in toro, poi in leone e infine in pantera. La giovane donna dallo spavento impazzì e Hermes la tramutò in pipistrello durante la notte in attesa di essere vinta dall’amore e diventare libellula.
La tradizione ritiene che la madre della ragazza sia stata un’inquilina del Palazzo di don Pantu, una delle numerose residenze assegnatele dalla leggenda nel corso della sua turbolenta vita. Donna fortemente avversa all’amore, si racconta che andasse continuamente in cerca di tutti gli uomini della zona, dei quali faceva letteralmente scempio.
La donna faceva condurre gli uomini in un luogo segreto, dove li faceva puntualmente uccidere o tramite qualche suo servitore oppure attraverso qualche altro espediente, tipo buttarli in mare da una rupe, laddove il malcapitato di turno cadeva vittima di qualche famelico animale marino, ma anche profonde fosse munite di punte di spada, denti di forcone e lame di rasoio.
Chiunque si trovava a passare nei dintorni, non poteva fare a meno di ascoltare i pianti e i lamenti degli sventurati innamorati della figlia della perfida Madre. Tra le tante sue vittime vi è una storia che i racconti popolari annoverano particolarmente. La storia di un uomo di mare perdutamente innamorato.
Lo straniero era approdato sulla spiaggia di Amantea dopo anni di vagare senza meta. La parola straniero all’epoca aveva la stessa radice di estraneo e di strano, che indicava ciò che era di fuori, “esterno”, “diverso”. Designava una persona che non era della famiglia, che non apparteneva né al clan né alla tribù. Era qualcuno che veniva da chissà dove, da un altro paese, sia esso vicino o lontano, da un’altra città o un altro villaggio.
La diversità poteva essere considerata un’importante ricchezza per quelle persone, ma nel contempo, poteva essere considerata un elemento negativo: molto spesso la diversità era stata causa dell’origine di sentimenti ostili, che portavano inevitabilmente ad azioni spregevoli e disumane. Il fatto di essere tutti l’uno diverso dall’altro aveva sempre fatto scaturire sentimenti come l’invidia, l’odio, la paura, il risentimento, stati d’animo guidati dall’istinto umano, dall’ignoranza e la paura verso l’ignoto.
La diversità aveva spesso provocato il pregiudizio, che a sua volta era all’origine della discriminazione e del razzismo. Per combattere questi atteggiamenti, in un paese come Amantea era necessario eliminare il pregiudizio e per fare questo bisognava comprendere la diversità. Una buona comprensione necessitava senza alcun dubbio un’adeguata conoscenza, un corretto apporto di informazioni che avrebbero permesso di ridurre quella paura verso il diverso che era la primaria forma del pregiudizio.
Per questo, fu abbastanza naturale che il viandante venisse immediatamente odiato dalla madre della bellissima donna che oltretutto vedeva in lui un “rapitore” di fanciulle. Con tale paura la madre un giorno si recò sul lungomare per chiedere consigli sul da farsi a Nettuno, il dio del mare.
Volendo allontanare il marinaio dalla vita della propria figlia, alla madre venne consigliato di assumere il viandante al suo servizio come barcaiolo, almeno così disse agli amici e conoscenti. Da quel momento in poi l’uomo non fu più visto, anch’egli vittima probabilmente di qualcuno degli innumerevoli tranelli orditi dalla crudele Madre e dal dio.
Da quel giorno il nomade innamorato iniziò a vagare disperatamente per gli oceani alla ricerca della giovane donna, perché era talmente grande la passione che ardeva nel suo cuore che ogni minuto lontano da lei era una tremenda sofferenza. Alla fine riuscì a trovarla ma lei appena lo vide, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche dell’uomo che gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionare la giovane fanciulla.
Lei, terrorizzata, scappava tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, in quanto l’innamorato la incalzava sempre più da vicino, decise di invocare la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita dalle richieste della figlia, iniziò a rallentare la sua corsa fino a fermarla e contemporaneamente a trasformare il suo corpo: i suoi capelli si mutarono in rami ricchi di foglie; le sue braccia si sollevarono verso il cielo diventando flessibili rami; il suo corpo sinuoso si ricoprì di tenera corteccia; i suoi delicati piedi si tramutarono in robuste radici e il suo delicato volto svaniva tra le fronde dell’albero. Durante il loro viaggiare intorno al mondo, alcuni calabresi riportarono, qualche anno più tardi , che, seduto su di un grosso tronco, al quale i pescatori legavano le loro barche, in un posto imprecisato dell’Oceano Pacifico, lo sfortunato amante aspettava pazientemente e quotidianamente l’improbabile apparire dell’amata.
La sua mente andò all’incontro tra Ulisse e la principessa Nausica. Il re di Itaca, se pur naufrago dall’aspetto repellente, venne accolto nella corte del re Alcino, dove venne trattato da eroe, quale era, narrò le sue disavventure e di come il volere degli dei avesse impedito il realizzarsi dei suoi progetti. Ulisse dunque, giungeva, è vero, ramingo, ma ben accetto.
Questo pensiero impregnò la mente del nostro triste eroe. Fu così per diverso tempo, fino a smarrire la ragione e a morire, con gli occhi fissi sul mare nella vana attesa della sua adorata Amanteana. C’è chi sostiene di vederlo ancora oggi, seduto su quel tronco di sequoia con lo sguardo fisso ad est, rivolto verso quel lontano mare di Ulisse come in perenne attesa di qualcuno…che gli potesse spiegare l’origine dell’angoscia di fronte allo straniero.
Quella stessa angoscia che non fa altro che riflettere il meccanismo che si innesca ogni volta che si incontra qualcuno delle cui intenzioni non si è certi. Chi è? Che cosa vorrà da me? Interrogativi che fanno vacillare, che mettono sulla difensiva. L’altro, nel momento in cui non è noto, costituisce una minaccia potenziale: alla propria identità, al proprio microcosmo di certezze.
Ed ecco la paura che “lui” voglia portar via qualcosa o qualcuno. E allora escluderlo, tenerlo fuori, alla larga appare come il sistema più immediato e sicuro per proteggersi da eventuali incursioni destabilizzanti. Lo straniero, per il fatto di non essere immediatamente leggibile, mina dunque il proprio senso di padronanza.
E lo straniero? Era anche lui spaventato, in difficoltà come e più degli altri. Lui in fondo si trovava in minoranza, immerso in un ambiente che non era per nulla il suo. Si trovò senza appigli, la sua angoscia assomigliava a quella del panico, del sentirsi andare alla deriva, privo di punti di riferimento stabili, esposto a una solitudine radicale. L’incontro con l’alterità aveva prodotto un urto, un impatto destabilizzante. Il rischio di ingabbiare l’altro nelle proprie categorie era dietro l’angolo. E così si è mancato l’incontro autentico con la sua particolarità, irriducibile a qualunque schema a priori.
Solo l’accostarsi all’altro con curiosità, con apertura e oblio di se stessi sarebbe stato possibile che si producesse qualcosa di fecondo e di nuovo. Un incontro degno di questo nome avrebbe dato infatti luogo al non ancora visto, non ancora vissuto. Con l’abbandono del proprio essere, delle sue paure e delle sue difese.
Gigino A Pellegrini

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