Era il tempo in cui i ragazzi spesso di domenica organizzavano gite ai Castelli romani.
Frascati, Rocca di Papa, Squarciarelli e così via.
Era una vera goduria: due o tre macchine stracolme di ragazzi e ragazze puntavano verso una meta, sempre a dire di qualcuno favolosa ed a buon mercato, dove si stramangiava e si strabeveva a volontà ( l’etilometro non esisteva ).
C’era chi portava il mangiadischi per cui il viaggio era sempre allietato da canzoni in voga all’epoca, ma che ancora oggi spesso risuonano nelle radio locali e nazionali.
Esaurito il repertorio dei dischi, si passava a cantare tutti insieme le canzoni romanesche, ovvero “Chi se ne frega, chi sene importa…” oppure “Nannarè…” e così via.
Giunti alla meta entravamo nel locale e smettevamo di cantare perché le bocche venivano occupate da bruschette, porchetta di Ariccia, fettuccine ai funghi, pollo e peperoni, vino del Castelli e così via.
L’acqua era severamente vietata.
Una volta, mentre ero impegnato con tanto diletto in questa funzione, notai che vicino a me, ma al tavolo accanto, sedeva una bella ragazza intenta a mangiare con la sua famiglia.
Continuai a mangiare anche io ma volgevo continuamente sguardi verso la mia vicina, la quale destava in modo particolare la mia attenzione.
Anche lei ogni tanto guardava verso di me, ma distrattamente e con assoluta indifferenza.
Ad un certo punto alla ragazza cadde a terra il tovagliolo che teneva sulle gambe ed io, senza alzarmi dalla sedia, mi chinai per raccoglierlo.
Se non che, anche lei si lanciò a prenderlo per cui i nostri occhi si incontrarono vis-a-vis e le nostre fronti si toccarono, per cui potei assaporare il profumo che portava e vedere da vicino i suoi capelli neri corvino e la delicata curva delle sue labbra che secondo me –eterno sognatore – promettevano baci indimenticabili.
Nel dirmi grazie, potei anche notare la perfezione della sua dentatura color avorio.
Il pranzo continuò con le solite menate, mentre io continuavo a mandarle sguardi insistiti, ricambiati solo di rado.
Finchè – finito il loro pranzo – la ragazza uscì dal locale con la sua famiglia.
Ma prima di richiudere la porta dietro di sé, mi mandò un ultimo sguardo, questa volta accompagnato da mezzo sorriso, che per me risuonò come il richiamo di una sirena.
Allora non resistetti, mi feci coraggio e la seguii fuori dal locale.
“Scusami un attimo” le dissi. “Posso farti una domanda?”.
“Certo mi rispose, sono pronta”.
“Ma quel tovagliolo l’hai fatto cadere apposta?” le chiesi.
“Certo, non era evidente? Solo uno un po’ tonto poteva avere dei dubbi!”
“Tuo padre?” chiesi per provocarla. “Spiritoso…” mi rispose.
“Allora ho capito chi è il tonto, ma provvedo subito.
Sono Vittorio, il tonto, e mi piacerebbe prendere un caffè con te”.
“Certo. Io sono Alina, lavoro in Comune e questo è il mio numero dell’ufficio…..Chiamami – se ti fa piacere – domani mattina”.
“Ma ora non ho carta e penna….”. “Peggio per te!” mi rispose.
Quindi si girò di scatto e se ne andò.
Ripetei più volte quel numero e lo scrissi sulla terra con uno sterpo. Poi con calma lo riportai su di un foglio. Non volevo correre il rischio di dimenticarlo.
Tutta la notte sognai la bella sconosciuta, pregando che il Sole anticipasse il suo sorgere perché non vedevo l’ora di fare quella telefonata.
Ma il Sole tardava! Giunsi al punto di temere che non sarebbe mai più sorto. Invece mi sbagliavo. Spuntò anche quel giorno, ma secondo me era in ritardo.
Arrivata un’ora congrua, composi il numero e chiesi di Alina.
“Ha sbagliato. Qui non c’è nessuna Alina” mi risposero attaccando precipitosamente la cornetta.
Mi chiesi come mai: numero errato? Riportato male sul foglio? Digitato male? Preso in giro dalla ragazza che magari mi aveva dato il numero del padre o di un suo amico o fidanzato? Tutto era possibile.
Il giorno dopo ritentai ma ottenni lo stesso risultato. Provai ancora qualche altra volta ma senza esiti positivi e con l’aggiunta di varie parolacce.
Quindi decisi di desistere – mio malgrado –ma non riuscivo a togliermela dalla testa.
Alina, Alina… perché sei stata così perfida? Perché mi hai ingannato? Nella mia mente risuonavano in continuazione queste parole di immensa delusione e non riuscivo a capacitarmi della gratuita presa in giro fine a se stessa, che non portava ad alcun costrutto.
Ma questo ripetere continuamente il suo nome mi fece balenare l’idea che Alina è l’anagramma di Liana!
Vuoi vedere – pensai – che questa perfida enigmatica ha voluto comportarsi come la famigerata Sfinge per mettere alla prova la mia intelligenza e la mia arguzia, e verificare se ero degno di lei?
A mente fredda mi sembrava di aver montato la classica supercazzola, al solo fine di giustificare il mio insuccesso.
Eppure – mi dissi – tentar non nuoce.
Decisi quindi di fare un ultimo tentativo.
Feci il numero e “ Buongiorno” dissi ” mi passa Liana per favore?” “Un attimo” rispose “Liana è per te” disse ad alta voce.
Non potete neanche immaginare la mia gioia e come la mia autoconsiderazione fosse salita alle stelle!
L’avevo acchiappata! Avevo superato la prova alla quale mi aveva sottoposto!
Avevo sconfitto la Sfinge! Come un novello Edipo, avevo risolto l’enigma!
Alzò la cornetta e disse: “Chi sei?”. “Vittorio” risposi. “Ah…Finalmente!“ mi apostrofò con voce che denunciava la sua felicità per aver perso. “Avevo ragione quella volta. Sei proprio tonto! Ma quanto tempo ci hai messo per capire? Ma ti pare che quell’altro tonto di mio padre mi metteva il nome Alina, che ai suoi tempi neanche esisteva? Era appassionato di Tarzan e delle sue liane per cui ho dovuto subire – mio malgrado – questo nome forestale.”
“Ho fatto tanti sogni su Alina” le risposi “adesso dovrò rivedere il tutto e trasportarli su Liana che, tra l’altro, mi piace molto di più. Domani prendiamo quel famoso caffè sperando che non sia andato a male?”. “E’ ancora buono” mi rispose “ Alle tredici ho la pausa pranzo. Vediamoci all’uscita dell’ufficio del Comune, anche se non sono sicura di riconoscerti”.
“Non temere. Io ti riconoscerò dai capelli, dagli occhi, dalla bocca e da tutto il resto. A domani.”
L’indomani alle dodici ero già lì, in fremente attesa, davanti all’uscita dell’ufficio situato in piazza del Campidoglio.
Si presentò puntualmente e venne verso di me con passo deciso. Capperi! Pensai, e dire che temeva di non riconoscermi!
“Ciao! mi disse, “ti ricordavo più alto! Ma va bene lo stesso.”
“Ciao”, le dissi,“ Io ti ricordavo proprio come ti vedo adesso. Fantastica, enigmatica e alta quanto basta. Solo il tuo nome è diverso. Pensa, mi hai fatto innamorare di Alina, ma ora sono innamorato di un’altra: Liana!”
“Quanto corri! Ne hai di strada da fare prima di giungere all’arduo risultato che speri, ma tieni presente fin d’ora che sono una ragazza complicatissima e i ragazzi che ho conosciuto fino adesso sono scappati a gambe levate per la disperazione.”
“Evidentemente quelli che sono scappati non ti meritavano e non ti interessavano. Io correrò il rischio perché ho apprezzato molto la tua sagacia, la quale fa il paio con la mia arguzia, come hai potuto constatare. Per questo i miei amici mi hanno definito “uomo di multiforme ingegno”, così come Omero definì Ulisse”.
“Addirittura!” rispose. “Non vedo l’ora di metterti alla prova.”
Mentre parlavamo passeggiavamo verso Villa Caffarelli – un posto fantastico da dove si gode la vista del Teatro di Marcello, del Giardino degli Aranci, della Rupe Tarpea, del Tempio di Vesta e chissà cos’altro – e cercavo di prendere la sua mano, ma lei sistematicamente la ritraeva.
Parlammo delle nostre vite, parenti, amici, studi e prospettive di lavoro. Poco dopo ci sedemmo su di una panchina e lei, mentre parlava, ruotava delicatamente una collana che portava al collo. Accortasi dove puntavano i miei occhi mi chiese, ”Ti piacciono le mie perle?” Io non le avevo neanche notate ma “Immensamente” risposi. “Specialmente quelle due più grandi…”. Ma sono tutte uguali….” Dopo un attimo capì e disse: “Bravo. Mi hai beccata Ora la tonta sono io.
E’ ora di rientrare.”
L’accompagnai all’ingresso dell’ufficio e salutandola le dissi: “Abbiamo dimenticato il caffè”. “ Alla prossima volta” mi rispose. “Quale prossima volta…” le dissi un po’ stizzito. “A domani alle tredici!”
“Va bene” rispose, e sparì nel portone.
Il giorno dopo andammo ancora a passeggio nella Villa degli innamorati, e mi raccontò della sua infanzia, sicuramente felice, ma noiosa perché i suoi genitori le tarpavano le ali e l’unica cosa che le permettevano era lo studio. Ma per lo svolgimento dei compiti a casa le erano sufficienti al massimo due ore per cui dedicava il resto del suo tempo a fare esercizi di memoria, rebus, e altri giochi enigmistici di ogni genere.
“Per esempio, se ti chiedo chi è che si offende se gli auguri la buona notte, cosa mi rispondi?”
“Fammi pensare un attimo …il guardiano notturno?”-
“Bene… vedo che sei acuto. Passiamo a qualcosa di più serio. Conosci il latino?”
“Solo scolastico” . “ Allora leggi questa frase, traducila e dimmi cosa noti di particolare in essa”.
Tirò fuori dalla borsetta un foglio dove c’era scritto “In girum imus nocte et consumimur igni.”
Tradussi la frase che significava “Andiamo in giro di notte e siamo consumate dal fuoco”. “Secondo me, sono le falene, le farfalle che di notte vengono attirate dalle luci delle lampade e bruciate dal calore” le dissi. “Bravo, ma ti avevo chiesto cosa c’è di particolare in quella frase.”
La lessi molte volte ma non notavo niente. Allora mi richiamò all’ordine e mi disse che l’ora d’aria era finita e che avevo tutta la notte per tentare di trovare la soluzione.
Le risposi che la notte non avevo tempo per farlo perché tutti i miei pensieri erano dedicati solo a lei.
Durante il tragitto di ritorno, lessi e rilessi quella frase cercando di scoprire l’arcano. Al portone di ingresso dell’ufficio, mentre aveva già un piede sullo scalino, mi balenò come di incanto la soluzione. “Liana” gridai: “Ci sono. E’ frase palindroma!”.
Senza neanche voltarsi, alzò il braccio e mostrò il pollice.
Le nostre passeggiate delle tredici continuarono per parecchio tempo e non mancava mai di pormi qualche quesito bizzarro del tipo – “Va via quando va via il Sole” (l’ombra ) – o rebus che ritagliava dalle riviste specializzate, che io il più delle volte risolvevo.
Ogni tanto cercavo di prenderla per mano ma mi intimava sempre “Stai al posto tuo!”
Altre volte la invitavo ad uscire la sera ma mi rispondeva regolarmente “Ma che sei pazzo? Mio padre mi ammazza!”
Questi suoi continui rifiuti mi indussero a chiederle se abitasse a Regina Coeli o, meglio, alle Mantellate (carcere femminile di Roma ) e lei mi rispondeva : “Quasi!”
Dava la colpa sempre a suo padre il quale temeva di perdere la sua adorata figlia. Inoltre le aveva intimato che poteva portare a casa sua solo quel ragazzo che era sicura di sposare.
“Sono io quel ragazzo e sono sicuro al cento per mille di volerti sposare” le dissi.
“Io no!” rispose . ”Il matrimonio è un istituto vetero ed inutile ai tempi nostri ed è stato inventato contro le donne. E’ solo portatore di problemi talmente grandi che coloro che lo affrontano devono essere eroi. E’ destinato a sparire in tempi brevi. Anche senza di esso, si può amare, avere figli, un compagno che puoi lasciare in un attimo, ed essere felici nella misura massima.”
“Sta ragazza è veramente avanti” pensai
Ma mi aveva avvertito!
Finalmente un giorno felice le presi la mano e lei non ritirò la sua. La strinsi con grande passione provando un immenso piacere pari a quello che dovrebbero sentire i Santi del Paradiso e che apriva il mio cuore ad emozioni e traguardi impensabili fino ad allora. Quindi riflettei su quanto fossero fondamentali e sensuali le mani nel gioco dell’amore e a quali sensazioni erotiche possono provocare il loro contatto.
“Dammi anche l’altra” le chiesi. “Non esagerare” mi rispose.
Ma qualche giorno dopo – a seguito delle mie ripetute insistenze – me le diede tutte e due. La posizione che assumemmo era obbligatoriamente uno di fronte all’altra. Potevo evitare di baciarla? No di certo, per cui – travolto dal desiderio – avvicinai lentamente le mie labbra alle sue e lei le accolse con un semplice bacio a stampo, diventando tutta rossa.
Finalmente una vittoria concreta, pensai, e non una banale soluzione di quiz.
Mi congratulai con me stesso. Prima avevo sconfitto Alina! Adesso Liana!
Finalmente mi considera degno del suo amore, ma quanta fatica!
L’accompagnai al lavoro e durante il tragitto restammo in silenzio, ambedue imbarazzatissimi.
Ad un certo punto disse: “Non avevo mai baciato sulle labbra un’altra persona.” “Neanche io” risposi. “Non fare lo scemo”. E aggiunse “Mi sento tutta scombussolata come se fossi stata investita da un treno”. “Guarirai presto” le dissi mentre lei mi faceva la linguaccia, che apprezzai moltissimo.
Ormai il ghiaccio era rotto e i nostri incontri continuarono con frequenza quasi giornaliera in altri modi e in altri luoghi, dove potemmo amarci come due novelli sposi.
Era un’amante fantastica e mi donava tutta se stessa, come d’altra parte facevo io.
Le chiedevo continuamente di sposarmi ma su questo era irremovibile: non voleva assolutamente perché – ripetette più volte –voleva stare con me senza vincoli o restrizioni che le avrebbero impedito di scaricarmi in un secondo.
Ma un giorno di ferragosto dell’altro secolo, capitò che eravamo tutti e due a Roma e dopo una lunga notte di carezze e baci, decidemmo di fare un giro in centro.
Mentre passeggiavamo sulla via Sacra notammo che nella chiesa di Santa Francesca Romana era in corso una messa. La invitai ad entrare e lei mi seguì.
Al momento della benedizione finale le presi la mano e le chiesi: “Mi vuoi sposare?” Rimase sorpresa, perplessa e ammirata dalla mia testardaggine, mi guardò negli occhi e rispose: “Mi hai sconfitta un’altra volta! Sìììììììì!”
Quindi la baciai davanti a tutti i fedeli che assistevano alla funzione, i quali diventarono tutti nostri testimoni.
Fu il matrimonio più sacro e più profano che si sia mai visto al mondo!
E’ ormai passato qualche secolo di felicità e lei continua a dimostrarmi il suo amore proponendomi continuamente i suoi quiz, i suoi rebus, le sue domande bizzarre, le sue sciarade, che io cerco sempre di risolvere con risultati ancora ottimi ma – come per l’amore – mi occorre molto più tempo.
Vit